Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia

Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia di Enrico Macioci è stato pubblicato da Terrarossa Edizioni nella collana Sperimentali.

E’ un romanzo breve, in cui l’autore mescola i piani temporali e i generi letterari.

Con una cura particolare della lingua, passando dalla finzione alla cronaca, Macioci racconta in parallelo due vicende accadute negli stessi giorni.

Siamo a giugno del 1981, più precisamente dall’11 al 13, e l’Italia intera partecipa accorata alla tragedia del piccolo Alfredo Rampi, precipitato in un pozzo artesiano nelle campagne di Vermicino. Contemporaneamente, da L’Aquila scompare Christian, il miglior amico di Francesco, l’io narrante del romanzo.

Le due vicende si mescolano ma risuonano in modo completamente diverso.

La scomparsa di Christian Creoli viene vissuta in maniera privata, al riparo dal clamore televisivo, ma non per questo appare meno credibile.

Il lettore non ha la sensazione di trovarsi al cospetto, da un lato di una vicenda di cronaca, e dall’altro di una ideazione narrativa.

L’infanzia, in entrambe le storie, non è descritta come un luogo inviolabile, né è sottratta al male che la realtà è capace di infliggerle. Esiste qualcosa di oscuro e impronunciabile che può farla dissolvere improvvisamente, la morte (“Dunque si poteva davvero rischiare di morire, anche se si era bambini”).

D’altra parte, l’assenza di risonanza pubblica alla vicenda del piccolo Christian, consente a Francesco, che all’epoca dei fatti aveva sei anni, di ricostruirli attraverso i ricordi quando ormai è diventato adulto.

Il ricorso a tale punto di vista è un éscamotage particolarmente riuscito.

Utilizzando lo sguardo incompiuto di un bambino, l’autore riflette, come solo un adulto farebbe, sulla società contemporanea, la tecnologia e il rapporto coi mezzi di comunicazione.

Appare evidente che i media hanno il potere di decretare l’esistenza stessa di un fatto di cronaca, di dichiararlo realmente accaduto.

Più spesso lo fanno interessandosi morbosamente al dolore e spargendo terrore nella gente che sta apparecchiando per cena o si è appena abbandonata sul divano, dopo una giornata di lavoro.

C’è una sorta di negazione della morte nella televisione del dolore, come una condanna ad assistere allo spettacolo interminabile della sofferenza umana (E’ altresì la storia della TV del dolore, della comunicazione del dolore, della civiltà che ha rimosso la morte spruzzando dolore ovunque).

Quella del piccolo Francesco è la prima esperienza a contatto con la vita reale, quella in cui non esistono alieni e navicelle spaziali ma vicini di casa minacciosi, pozzi incustoditi in cui è facile scivolare e amici che possono anche non fare ritorno a casa.

Sebbene ci provi con tutte le sue forze, non riesce a trovare una via di fuga dalla realtà. E’ come se i suoi trucchi di bambino, gli stessi a cui ricorreva con Christian nei pomeriggi trascorsi a giocare, all’improvviso non funzionassero più.

Particolarmente incisivo è il titolo del romanzo. Si tratta di una frase pronunciata da Alfredo Rampi allo stremo delle forze. I soccorsi non riuscivano a liberarlo, versava in debito di ossigeno e con un filo esausto di voce pronunciò quella drammatica esortazione ai suoi soccorritori.

Contiene in sé qualcosa che potremmo definire, al contempo, inesorabile e universale. Chiunque, prima o poi, è destinato a fare esperienza delle tenebre, della perdita delle illusioni infantili, di quell’ingresso tremante nella stanza oscura che crescere comporta.

 L’immaginario infantile descritto da Macioci è ricco e articolato. Francesco fa supposizioni, deduce, formula pensieri a cui gli adulti non credono (Gli adulti non credono per fede ma per convenienza, e ciò che credono si riduce a ciò che vogliono).

La presa d’atto della fallibilità dei grandi, della loro impotenza, rappresenta la più dolorosa delle scoperte. Siamo tutti soli, bambini e adulti, perché di fronte alla morte nessuno può dirsi al sicuro (Era una cosetta fragile nelle grinfie della terra e la settima potenza industriale del mondo faticava a tirarlo fuori).

Il Paese si stringe attorno ad Alfredo e non intorno a Christian, il piccolo Francesco non sembra farsene una ragione perché, dal suo punto di vista, perdere un amico significa perdere il mondo intero.

Gli pare assurdo, quasi offensivo, che quell’evento abnorme che ha cambiato per sempre la sua vita, non abbia arrestato il corso consueto del mondo, non abbia interferito in alcun modo con la normalità (Mi sembrava assurdo che lui fosse sparito e nella mia camera non fosse cambiato nulla, che i poster non si strappassero dalle pareti e la polvere non si levasse in turbini rabbiosi).

La verità che l’autore ci propone per bocca del piccolo protagonista del suo romanzo suona amara e, per qualche verso, blasfema: diventiamo meschini al cospetto del dolore altrui. Solo la sfrontatezza di un bambino può ammetterlo senza censura.

Macioci lo ribadisce anche in riferimento alla vicenda di Alfredo Rampi.

Torna a riflettere sul dolore quando coinvolge gli altri, quando ci lambisce appena, quando ci smuove una blanda partecipazione mentre in fondo, a prevalere, è il sollievo di esserne stati risparmiati (Si soffriva, credo con sincerità; ma credo altresì che in una zona ben celata del misero cuore umano si gioisse. La disgrazia non toccava al proprio figlio o alla propria figlia…).

L’atroce paradosso che accompagna le vicende drammatiche, sembra emergere da questo breve e affilato romanzo, è che quando abbiamo la fortuna di osservarle dal di fuori, ci forniscono un’occasione di redenzione personale. Ci consentono di mascherare l’egoismo, di rinnegare il disinteresse, ci illudono di essere in salvo.