Come una santa nuda, di Alessandra Saugo

Come una santa nuda (edito da Wojtek) è il terzo libro di Alessandra Saugo, il suo secondo postumo. L’autrice è scomparsa nel 2017 lasciando nel suo computer, a quanto pare, diversi manoscritti. I tre libri di Saugo finora pubblicati (il primo, Bella Pugnalata, Effigie nel 2010, rimasto praticamente invisibile, il secondo, Metapsicologia rosa, Feltrinelli nel 2017, poco dopo la sua morte) costituiscono una originale vicenda stilistica, editoriale e biografica insieme. Ma forse, soprattutto, un’occasione di letteratura, nuova, andata persa.

Il filo che annoda tutto il lavoro di Saugo è composto di dolore, fallimento, ingenuità, purezza, desiderio, rara sensibilità, coraggio, fallacia. La trama e i fatti sfuggono al lettore, mentre il contenuto passa forte e chiaro per altro: innanzitutto dalla lingua di Saugo, una lingua nuova, difficile.

In Come una santa nuda Saugo racconta, in spezzoni narrativi, il suo disagio verso il mondo, il suo sarcasmo verso il suo psicoterapeuta (nome noto), il dolore per non esser riuscita farsi leggere dai “decisori” nel mondo editoriale (editor, critici etcc…). C’è il suo sprezzo per i salotti chiusi che parlano di inclusività. Poi c’è il dolore per la separazione dal marito, il tradimento subito, l’amore per le sue figlie. Saugo si sentiva ferita a morte, ma ha raccontato fino all’ultimo i suoi tentativi di farcela. In questo libro pubblicato da Wojtek ci sono riferimenti espliciti, (con nomi) e alcuni impliciti (con nickname), ad alcuni autori con i quali lei era entrata in contatto. Ma qual è la vicenda di Saugo? Un autore che non riesce a emergere? Un talento incompreso? Quanti ce ne sono? Il mondo editoriale è super affollato, si sa, ci sono regole per muoversi.  Ingenuità e fragilità non mancano qui, ma quello che schiaffa in pagina Saugo è la storia di un’anima che, come tante, non si è strutturata e fatta scaltra abbastanza da sgomitare in mezzo alla folla. È la storia di un fallimento fino alla fine. E la letteratura non ama il fallimento? Sì, ma forse solo quando è raccontato da chi ha già avuto successo, solo se sono noti autori a raccontare la sconfitta.

Ma torniamo alla lingua, che qui è tutto, forma e contenuto. Saugo ha inventato una lingua nuova, e leggendola è chiaro che non si tratta di una vuota performance stilistica, ma del risultato di un’adesione perfetta tra voce e sentire. La lingua di Saugo è irregolare, non è accogliente, è personale, è come fosse interna a lei solo. È difficile. Saugo è una scrittrice difficile perché chiede al lettore attenzione e di rimanere scomodo per un po’. Ma, anche qui, paradosso, sembra che una lingua così risulti apprezzata (recensita) solo se viene da una traduzione.

Saugo cercava un luogo di espressione letteraria, non di rappresentazione del suo personaggio. E invece è dovuta rimanere nel buio, ma da lì ha tirato fuori una voce incandescente, tagliente, luminosissima. Se l’abbiamo persa, possiamo sempre provare a recuperarla.

 

Articolo pubblicato a firma di Valeria Cecilia su Il Foglio, in terza pagina, il 3 gennaio 2024.