
Un amore di Dino Buzzati
La trama di Un amore di Dino Buzzati è presto detta: il tormento interiore d’un uomo di mezza età ossessionato da una ragazzina capricciosa che lo tiene al guinzaglio, sfruttandolo e umiliandolo. Così potremmo condensare – banalizzando molto e omettendo un finale a sorpresa – i trentacinque brevi capitoli (quasi privi d’azione) di uno dei più bei romanzi di Buzzati.

Eppure, su una trama così semplice, quasi banale, la magistrale penna di Buzzati, scavando nella psicologia dei due protagonisti, riesce a conferire al racconto un movimento ascensionale: un progressivo intensificarsi della tensione che sembra sul punto di esplodere da un momento all’altro. Se l’azione è ridotta al minimo, il movimento dei pensieri è forsennato. Tale movimento interiore permette di dare al romanzo un ritmo costante, che non rallenta, non divaga, ma cresce a poco a poco fino a risolversi nell’inatteso finale.
Pubblicato nel 1963 da Mondadori, Un amore è l’ultimo dei sei romanzi scritti dal grande autore italiano. Il libro ebbe subito un grande successo di pubblico, al punto che solo due anni dopo ne fu tratto il film omonimo, diretto da Gianni Vernuccio, con Rossano Brazzi e Agnès Spaak.
Tuttavia per molto tempo rimase sottovalutato dalla critica, bollato superficialmente come “romanzo erotico”: un romanzetto di consumo, un libro minore di un autore minore.
Sì, perché la grandezza di Buzzati non fu subito compresa.
Vuoi per il suo essere fuori dagli ambienti dei grandi “letterati”, vuoi per il suo stile asciutto e semplice che gli derivava dall’essere un cronista e un giornalista di razza.
Buzzati, nato in Veneto (a San Pellegrino di Belluno, nel 1906), visse per tutta la vita a Milano, dove lavorava al Corriere della Sera. L’essere giornalista, prima che scrittore (quantunque lui preferisse definirsi principalmente “pittore”), influenzò profondamente il suo stile di scrittura. Tuttavia, se il suo stile deve molto al giornalismo, non si può dire altrettanto dei suoi contenuti. Sembra proprio che attraverso la narrativa Buzzati volesse evadere dalla nuda e cruda realtà di cui doveva render conto sui quotidiani per rifugiarsi in un mondo fantastico. È noto, infatti, che l’intera sua opera si inserisce in quella corrente che i critici sono soliti definire come “realismo magico”. Nei suoi romanzi e nei suoi racconti Buzzati indugia continuamente nel sovrannaturale, nel fiabesco, nella magia, in quanto di più lontano potrebbe esservi dalla cronaca e dal realismo (molto in voga proprio negli anni dell’immediato dopoguerra).
Un amore è però un romanzo diverso dagli altri scritti dall’autore. Ma forse solo in apparenza.
A differenza del solito Buzzati, qui il fantastico sembra cedere il posto a una narrazione realistica e psicologica, in una storia che certamente presenta atmosfere diverse da quelle che ci aspetteremmo se abbiamo già letto altre delle sue opere più famose. Eppure, questa “eccezione” della produzione buzzatiana è solo apparente. La penna di Buzzati rimane inconfondibile, e a una lettura non superficiale, il legame con il “classico” Buzzati rimane molto evidente.
Ma guardiamo più da vicino la storia. Il romanzo inizia in medias res: nello spazio di due righe, l’autore ci dà le coordinate spaziotemporali (“Un mattino del febbraio1960, a Milano”) e ci presenta il protagonista (“l’architetto Antonio Dorigo, di 49 anni”), catapultandoci subito in una conversazione telefonica fra quest’ultimo e la signora Ermelina, proprietaria di una casa di appuntamenti. Nella conversazione Antonio (“Tonino”) sta fissando un incontro: capiremo presto che il “vizio” del nostro protagonista, scapolo incallito, è quello di andare a letto a pagamento con ragazze giovanissime per le quali egli prova una particolare attrazione. Quell’appuntamento, però, non sarà come tutti gli altri. Infatti, Antonio conoscerà Adelaide, detta Laide, giovanissima (presunta) ballerina della Scala che cerca di “arrotondare” offrendo il suo giovane corpo a uomini anche molto più grandi di lei.
Quest’incontro sarà fatale per Antonio che presto si innamorerà perdutamente della ragazza. Laide, al contrario, sembra non avere alcun interesse per lui, e tuttavia accetta per denaro di dargli l’esclusiva, diventando la sua amante fissa. Ma più il legame si stringe, più l’ossessione di Antonio aumenta, un’ossessione alimentata dalle bugie, dalle ambiguità e dalle scuse continue della ragazza. Antonio si sente umiliato, offeso, sfruttato, eppure non riesce mai a ribellarsi, subisce passivamente i capricci di Laide, che, anche a seguito di pesanti umiliazioni ed evidenti menzogne, riesce sempre a rabbonirlo e riportarlo sotto il suo controllo psicologico.
La storia è narrata in terza persona ma con focalizzazione interna, dal punto di vista del protagonista: soprattutto nella seconda parte del libro, l’incursione di ampi monologhi interiori trasmette al lettore le continue ansie e paranoie di Antonio.
I comportamenti assunti da Laide confondono non solo Antonio, ma anche il lettore stesso, che tenta continuamente, invano, di decifrare le reali intenzioni della ragazza. Una co-protagonista sicuramente poco convenzionale per l’epoca, una donna estremamente libera, sfacciata, dominatrice, da molti critici paragonata alla Lolita dell’omonimo romanzo di Nabokov, pubblicato in Italia solo qualche anno prima (nel 1959) e divenuto subito un caso editoriale.
Quello che Buzzati ci racconta in questo romanzo è un amore “capriccioso”: il contrasto fra i capricci di un uomo maturo che si sente bambino (“egli avrebbe desiderato invece abbandonarsi senza riserve gioiosamente come un bambino nell’entusiasmo del gioco”) e i capricci di una bambina costretta a crescere troppo in fretta. Laide è un personaggio indecifrabile che condurrà il protagonista all’esasperazione (lui stesso la considererà “una disgrazia”).
L’elemento autobiografico è molto presente.
Non solo l’ambiente – Milano – rispecchia quello in cui visse e operò Buzzati (compresa la Scala, dove lo scrittore fu spesso impegnato come critico musicale), ma anche la condizione personale di Antonio rivela un legame con la biografia di Buzzati. Egli, infatti, legato in modo viscerale alla madre – con la quale visse fino alla morte di lei (nel 1961) – fu, in fondo, un eterno figlio. Rimasto scapolo per lungo tempo, si sposò soltanto nel 1966 con Almerina Antoniazzi, modella più giovane di lui di trentaquattro anni. Si conobbero nel 1960 quando lei aveva solo 19 anni e lui 53. Allora, però, egli aveva allacciato una relazione proprio con una ballerina che ispirò il romanzo Un amore. Quando poi si sposarono, l’unione destò scandalo nell’Italietta dell’epoca e Almerina venne definita “la sposa bambina”; ma i due si amavano e non se ne preoccuparono. Come Laide, anche Almerina, fu una donna fuori dagli schemi, incurante di regole e convenzioni sociali (fu, ad esempio, fra le prime a indossare una minigonna in Italia). Entrambi odiavano il perbenismo borghese, tanto che lo scrittore, ponendola in contrasto con l’ambiente cittadino, la definiva affettuosamente la sua “contadinotta veneta”.
La polemica contro la morale borghese è infatti un altro grande tema del romanzo, che vede lo scontro tra la ricca borghesia operosa di cui Antonio fa parte e il proletariato povero ed emarginato di cui è figlia Laide. Tale contrasto è messo in evidenza anche dall’ambiente che fa da sfondo alla vicenda: Milano. La città, attiva, operosa, pienamente borghese, ma proprio per questo triste, grigia, monotona, banale (“Era una delle tante giornate grigie di Milano, però senza la pioggia, con quel cielo incomprensibile che non si capiva se fossero nubi o soltanto nebbia al di là della quale il sole, forse”) si pone in contrasto con i colori vividi del sentimento amoroso, che per Antonio costituisce una via di evasione dalla sua triste esistenza. Il rapporto con Laide è proprio la nota di colore che irrompe nel grigiore della città e dell’esistenza del protagonista.
Il vortice della passione irrazionale e travolgente mette in crisi quel professionista composto, serio, stimato; sfonda e travalica la gabbia borghese, facendola esplodere. Un amore estremo, solo in apparenza frivolo: Laide non è un semplice giocattolo sessuale, ma si trasforma in una vera ossessione. Un’ossessione che, soprattutto nella seconda parte del romanzo, si esprimerà attraverso i lunghi monologhi interiori del protagonista. È proprio qui, nel flusso di pensieri di Antonio, che vediamo la realtà trasfigurarsi e riempirsi di simboli, fino a lasciare spazio all’onirico nell’incubo che sembra trasformare in realtà tutte le parure di Antonio.
È in queste deformazioni e simbolismi che riconosciamo la cifra stilistica di Buzzati, che non è stata affatto abbandonata neppure in questo romanzo.
Chi ha letto Il deserto dei Tartari, il suo libro più celebre, non potrà fare a meno di notare come il cognome del protagonista di quel romanzo, Giovanni Drogo, sia quasi l’anagramma del cognome del protagonista di Un amore (Antonio Dorigo). E in effetti, a ben guardare, le analogie non si trovano solo nel nome. Da un lato abbiamo l’ossessione dei Tartari, del nemico che sta per arrivare (e non arriva mai), dall’altra l’ossessione per una ragazzina che il protagonista spera di poter avere a sua completa disposizione, senza che tale desiderio si realizzi. Entrambe le storie ci parlano di una frustrazione, di una sospensione, di un’attesa che viene delusa (non poche volte Antonio è costretto ad attendere che Laide, con i suoi comodi, si faccia viva).
Alla fine del romanzo, un altro personaggio, Piera, come un deus ex machina, scioglierà la matassa, facendo aprire gli occhi a Dorigo e offrendoci una sorprendente chiave di lettura dell’odioso comportamento di Laide. Solo allora, forse, riusciremo ad assolverla e il finale prenderà una piega del tutto inaspettata.