Storie dell’America, del mondo e della paura della solitudine

Claudia Rankine

Claudia Rankine

Claudia Rankine (Giamaica, 1963, poi cresciuta in America) è conosciuta soprattutto come poetessa, infatti nelle librerie i suoi testi li troviamo spesso al reparto poesia, ma in realtà le sue sono opere complesse e innovative nelle forme (ibride per stili e linguaggi anche multimediali) e nelle storie, che appaiono prive di ogni ansia da auto fiction.

I libri di Rankine (in Italia, lo scorso giugno, 66thA2nd ha pubblicato Non lasciarmi sola, scritto nel 2004, durante il secondo mandato di George W. Bush, mentre l’altro suo libro di grande successo e pluripremiato è Citizen. Una lirica americana, pubblicato nel 2014) raccontano l’America di oggi e quindi alcuni tratti globali del mondo contemporaneo: solitudine, razzismo, paura della guerra, del terrorismo, emarginazione, mass media. Ma non è semplice mettere a fuoco di cosa parlano davvero i libri di Rankine, perché il fil rouge di quel susseguirsi di frammenti, tra appunti, sogni, racconti, brevi poesie e foto, non va cercato tanto nei temi quanto nel singolare modo di rappresentare la realtà: come se ci fosse un televisore accesso h24 sulla propria vita interiore, senza il supporto di strutture e passaggi narrativi facilmente riconoscibili (ansia da fiction appunto). Quelli, in caso, li deve ricomporre il lettore.

Non lasciarmi sola inizia dalla morte. La protagonista (che vive appunto con la televisione accesa nella camera da letto h24) racconta in prima persona di quando era piccola e a un certo punto, come tutti i bambini, inizia a chiedere ai genitori se qualcuno che conoscono sia già morto, cosa succede quando si muore, e poi se anche lei morirà e, anzi, se non è per caso già morta. Poi passa in rassegna i bugiardini dei suoi farmaci antidepressivi, le pubblicità di quei stessi farmaci, “La tua vita ti aspetta”, pezzi di dialoghi con suoi amici malati di cancro, di Alzheimer, e poi film, notizie di cronaca su sparatorie, terrorismo,  guerra, condanne a morte, eventi di razzismo, carcere. Ma c’è anche una riflessione sul fegato e sulle insufficienze epatiche dovute ai farmaci o all’alcol,  su un uomo che ha un cuore artificiale, e ci sono pezzi di storia della  sorella della protagonista che ha perso i figli in un incidente stradale.

La narrazione procede per pezzi, piccoli  racconti, appunti, sogni, e mette sotto il microscopio angoli e pieghe della vita quotidiana per raccontare il sociale. Frammenti di sguardi e gesti domestici, così piccoli, ma che nelle pagine appaiono giganteschi pannelli del reale. Il fegato è il fegato del mondo, il filtro che ci protegge. E tutti i  pezzi del libro creano, come dice l’autrice in un’intervista con Viviana Mazza su La Lettura, una storia collettiva. Il suo io, dice la Rankine, è universale, il suo libro non vuole essere semplicemente un memoir, vuole esporre dinamiche più vaste, l’autrice fa solo da raccoglitore.

Il tema della morte è a servizio del racconto della vita: il libro approda a un’ammissione, intima di paura, solitudine, “mi sono sentita triste”, e questa ammissione è una consolazione privata che ha una funzione collettiva, liberatoria, l’”ottimismo americano è morto”, dice Rankine, e si può esser tristi, non c’è l’obbligo di esser felici per forza. La tristezza è reale, e conclude, con un’altra ammissione non priva di luce : “dobbiamo essere in due in questo mondo in questa vita in questo luogo”.

Questo articolo è stato pubblicato a firma di Valeria Cecilia su agrifoglio.ilfoglio.it

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