La cagna di Pilar Quintana

La cagna, romanzo della scrittrice colombiana Pilar Quintana, è stato pubblicato per la prima volta in Italia a giugno 2022 da La Tartaruga, con la traduzione di Pino Cacucci. Vincitore del Premio Biblioteca de Narrativa Colombiana nel 2018 e finalista al National Book Award 2020, questo affilato romanzo si è imposto nel panorama letterario mondiale con una forza d’urto particolarmente intensa.

La protagonista della storia si chiama Damaris, ha quasi quarant’anni (“l’età in cui le donne inaridiscono”), è sposata con Rogerio, laconico pescatore dai modi spicci, e non è riuscita ad avere figli. Vive questa condizione come una menomazione, in principio a causa del giudizio sociale che si fa sempre più pressante (“la gente cominciava a chiederle ‘A quando un bebé?’ A un certo punto aveva dovuto spiegare a quanti facevano domande che il problema era lei che non rimaneva incinta”), poi, col passare del tempo, per un senso di incompiutezza che non sa spiegare e le fa sfasciare tutto ciò che tocca.

Il lettore assiste alle evoluzioni nette dei sentimenti della protagonista ed è proprio l’alternanza dei suoi stati d’animo a scandire una sorta di divisione in blocchi del romanzo.

Damaris passa dalla speranza di rimanere incinta attraverso riti sciamanici alla rassegnazione dopo che ogni tentativo si rivela inutile (accetta ciò che le è toccato in sorte come si accettano le disgrazie nel villaggio colombiano in cui è cresciuta), fino a giungere all’esplosione della cattiveria, ultimo approdo di un’esistenza sconfitta.  Tutti i sentimenti che prova sembrano travolgerla; sono forze primitive, al pari di quelle sprigionate dall’oceano che inghiotte i corpi e non li restituisce, e dalle selve buie su cui svolazzano gli avvoltoi, attratti tanto da resti di uomini che di bestie.

In questo scenario fa la sua comparsa una cagnolina che Damaris decide di tenere con sé e di chiamare Chirli, il nome che aveva scelto per la figlia mai avuta, un nome “da reginetta di bellezza”.

Da quel momento riversa sulla cagna una devozione sconsiderata e assoluta. La porta con sé ovunque, infilata sotto la maglietta, le destina una forma di amore che neppure immaginava di poter provare, schiacciata dalla monotonia dei suoi giorni sempre uguali. È un amore che esonda, che non conosce contenimento né ragionevolezza e che presto si fa ossessione, risarcimento e rivendicazione.

Per quanto sia immediata l’identificazione della cagna con la figlia mai nata, l’amore scomposto che Damaris prova per lei -e da cui pare quasi soggiogata- affonda le radici più in profondità.

In un’infanzia vissuta nell’indigenza, nella violenza perpetrata ogni giorno da uno zio a mo’ di cura per un’infelicità destinata a non passare mai (“Si fermerà alla 34esima frustata, avvenuta nel giorno in cui il mare restituisce il corpo di Nicolasito”).

Il disamore nella vita di Damaris è proliferato come un’edera mostruosa, come i rami intricati delle selve colombiane che Quintana descrive spesso nelle pagine del romanzo: le foreste cupe, così come le onde implacabili dell’oceano, assumono il ruolo di protagoniste al pari degli esseri umani. Le forze della natura sono descritte come spietate e indifferenti alle sofferenze degli uomini, ne logorano le già misere esistenze e con esse si confondono (“I piedi affondavano nel tappeto di foglie morte e nel fango, e a un certo punto aveva avuto l’impressione che il respiro che sentiva non fosse il suo ma quello della selva”)

L’autrice non fa differenza tra esseri umani e animali: esiste un nucleo primitivo di pulsioni che non li distingue. Una solitudine degli istinti che diventa inettitudine ai sentimenti, alle parole e alla pietas.

In un’intervista di Alessandra Coppola, pubblicata a luglio 2022 su Sette del Corriere della Sera, Pilar Quintana chiarisce l’intima connessione che ha voluto instaurare tra esseri umani e animali al cospetto delle forze, spesso ostili, sprigionate dalla natura. Sia gli uni che gli altri custodiscono un nucleo di fragilità che provano a mettere al riparo con mezzi di fortuna (“siamo piccoli noi esseri umaniesposti, annegati dall’acqua o ingoiati dalla selva; spaventati e rabbiosi al pari degli altri animali”).

Sono proprio lo spavento prima e la rabbia poi a sopraffare Damaris quando Chirli, forse soffocata dall’eccesso di premure o forse solo rispondendo alla propria natura selvatica, inizia a vagabondare, a sparire per poi tornare in momenti imprevisti, bisognosa di cure perché ferita o di riposo perché gravida. Damaris vive queste intermittenze come reiterati tradimenti.

Non c’è nulla di equilibrato nel dolore che la protagonista prova per gli allontanamenti di Chirli, nell’invidia che non riesce a trattenere per la fecondità della bestiola, per il suo essere madre indegna – che divora uno dei suoi cuccioli e abbandona gli altri – ma tuttavia madre (“non sopportava neanche di vedersela davanti. Era una tortura constatare che la pancia cresceva ogni giorno”). La cagna non è capace di onorare il proprio impegno d’amore nei confronti di chi si è preso cura di lei e neppure delle creature che ha partorito.

A Damaris, ogni volta che Chirli si allontana da casa, non restano che le incombenze misere e pratiche che hanno rappresentato una costante della sua scarna esistenza. Non restano che le briciole di amore che la cagna le corrisponde per puro opportunismo, la condanna a una solitudine irreparabile.

Tormentata dalla voglia di vendicare il suo amore sprecato, decide di sbarazzarsi di Chirli, di punirla per i suoi tradimenti.

Appare ricorrente, e forse rappresenta la cifra più specifica di questo romanzo, la costante commistione tra umano e bestiale, l’inscindibilità delle due condizioni.

Le pagine asciutte del romanzo di Quintana lasciano al lettore un magone che permane anche quando la lettura è terminata, perché non affrontano solo il tema della maternità negata ma mettono in scena il dramma complesso dell’amore frustrato, dell’ingratitudine e della dimenticanza. Damaris è cresciuta nel dolore e da esso ha provato a smarcarsi ma non c’è speranza per una come lei. A conferma del fatto che il disamore, quando viene sperimentato troppo a lungo, si trasforma in destino nero da cui non ci si può sottrarre, neppure impegnandosi ad amare con tutte le forze.