L’Abito Bianco di Nathalie Léger. L’artista dice: non chiedetemi lo scopo

Nathalie Leger

Nathalie Leger

L’Abito Bianco di Nathalie Léger (La Nuova Frontiera) è un libro fatto di materia densissima, che pagina dopo pagina scorre impastando insieme tutte le cose diverse che questo libro sa essere. Perché questo romanzo misto a saggio parla di destini e separazioni, è un libro sull’arte e sugli artisti, è un libro sulle eredità dolorose che le famiglie di origine ci lasciano, e non è un libro su Pippa Bacca ma un libro con Pippa Bacca, perché installa (a mo’ di un’abile performance) un triangolo tra l’autrice, sua madre e Pippa Bacca intorno alla comune ricerca di risposte, e costruisce un intricato parallelo tra l’arte e la vita, l’una per comprendere l’altra.

L’Abito Bianco è un libro sul tentativo, la vita come tentativo, l’arte come tentativo, di cui non ha importanza il risultato, non ha importanza il senso, ma l’aver fatto quella cosa, l’aver desiderato, e il desiderio non smette mai di scorrere anche se si ha fallito, e le idee rimangono buone e valide anche se non sono riuscite a diventare fatti tangibili: “anche quando gli artisti sono maldestri, quando hanno le idee confuse, quando i loro gesti sono incompiuti, le performance si ostinano a dire qualcosa di vero”.  L’Abito Bianco è una ricerca a cantiere aperto, un’osservazione sentimentale a caldo, su quella cosa tanto cara all’autrice che è l’incertezza (“fare della confusione l’oggetto della mia ricerca”). Ed è da qui infatti che il racconto inizia, dal dubbio, dalle domande rimaste senza risposta e sul tentativo di riparare, di rimettere a posto le cose.

La domanda iniziale è quella della madre della protagonista: sono una vittima o sono la responsabile del mio fallimento? La donna si fa questa domanda nella stagione finale della sua vita e chiede alla figlia di fare qualcosa per riscattarla. Riscattarla dalle ingiustizie e umiliazioni subite dal marito e da tutto il clan familiare (con tanto di processo). Alla figlia viene dunque chiesto di fare giustizia alla madre, una richiesta onerosa (“puoi agire per me, puoi parlare per me, puoi difendermi e anche vendicarmi”), un vertiginoso ribaltamento di ruoli. E proprio mentre arriva questa domanda, allo stesso momento, la figlia viene a conoscere, per caso, dalla tv, la storia di Pippa Bacca, giovane artista milanese, che intraprende la sua performance in vita con un viaggio in autostop attraverso i paesi Balcani per arrivare a Gerusalemme, con l’idea di incarnare un simbolo di riconciliazione, di unione (viaggia con indosso un abito bianco da sposa) in quei territori offesi e divisi dalla guerra. Ma l’idea fallisce, la ragazza muore, viene brutalmente uccisa durante il suo viaggio (era arrivata a Istanbul). La seconda domanda quindi è su Pippa Bacca: Pippa ha fallito? Quello che ha fatto non ha avuto senso? E poi, la sua era arte, o solo incoscienza? (tanti lo hanno pensato e detto e scritto), ma “non chiedetemi lo scopo dice l’artista” …“ l’artista lo chiama paradosso della pratica: fare qualcosa a volte non porta a niente, non fare niente a volte porta a qualcosa”.

Quello di Pippa Bacca e quello desiderato dalla madre, sono gesti che mirano entrambi a riparare qualcosa, un torto subito, e la protagonista li mette vicino, li rende paralleli, la comprensione dell’uno per la comprensione dell’altro (lo stesso meccanismo l’autrice l’ha messo in atto anche nel libro Suite per Barbara Loden), anche perché la richiesta della madre di essere difesa e riscattata la obbliga a una ricerca non più speculativa ma intima, dolorosa, rabbiosa, e forse le serve un filtro per capire cosa fare: difendere la madre oppure no? (“lei nella richiesta io nella schivata”), capire se la considera veramente una vittima (“questa capacità che ha di affannarsi per una sciocchezza”… “quell’aria di pietà molle, di empatia sottaceto”). La figlia vuole aiutare la madre, ma non vuole essere come lei, non vuole ripetere, non vuole imitare “mi ha sempre ripugnato, queste madri, queste figlie, l’esibizione della generazione”. Tutto questo non è chiaro, univoco, lineare, ma è impastato insieme, ma tanto non è la chiarezza lo scopo,  l’autrice lo ha dichiarato all’inizio come un manifesto (“non mettetevi a cercare alcun significato, lo faccio senza motivo” dice l’artista). Lo scopo di  Pippa Bacca, lo scopo della madre, lo scopo della protagonista, no,  la cosa interessante è l’oggetto su cui fare ricerca, fare scrittura in questo caso, e anche se le cose non si rimettono a posto qualcosa di importante accade, qualcosa legato alla giustizia:  “tu l’hai scritto per me” dice la madre alla fine, hai reso “con le parole che mancavano, con le parole proibite, la mia voce viva”… “l’hai fatto a modo tuo ma l’hai fatto”.

Questo articolo è stato pubblicata a firma di Valeria Cecilia su agrifoglio.ilfoglio.it.

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