Il rapporto madre-figlia: tutto il prezzo del distacco
Lontananza della norvegese Vigdis Hjort, nella traduzione di Margherita Podestà Heir, è stato pubblicato da Fazi Editore a settembre 2021 nella collana Le strade.
Come Eredità, il suo precedente e fortunato romanzo, esplora il gorgo delle relazioni familiari scavando nella memoria sepolta del tempo.
La forma è quella di un diario lucido e potente che indaga temi universali e dolorosi quali l’assenza, il rifiuto e l’abbandono. Nel caso di Johanna, la protagonista, questi temi assumono i contorni ancestrali del ripudio, poiché è sua madre, ormai ottantacinquenne, che rifiuta ogni contatto con lei.
La sua colpa, risalente a trent’anni prima, è stata quella di aver abbandonato il marito e la prospettiva di un lavoro coerente con i propri studi in legge per seguire il suo professore di arte a Los Angeles, diventare una pittrice quotata -che peraltro ha realizzato opere ritenute oltraggiose da sua madre-, avere avuto un figlio e non essere tornare a casa neppure in occasione della morte del padre.
Rimasta vedova, a Johanna viene offerta la possibilità di allestire una mostra retrospettiva in Norvegia. Questa è l’occasione, o forse il pretesto, per provare a riallacciare i rapporti con la madre dal punto in cui si erano bruscamente interrotti, di opporsi anche con la forza, se necessario (“fin quando sua figlia è in vita, non è al sicuro”), alla damnatio memoriae che le è spettata in sorte.
Lontananza è un romanzo sulla spietatezza della relazione madre-figlia che l’autrice viviseziona e scava, alternando capitoli lunghi e martellanti come solo le ossessioni sanno essere, a capitoli brevissimi e folgoranti. Molto suggestive le descrizioni naturalistiche; gli alberi del bosco, con i loro rami intricati da cui la luce fatica a filtrare, si offrono da correlativo oggettivo dei rapporti familiari. Johanna li osserva dalla casetta di tronchi in cui si rifugia per placare la propria inquietudine (“Mi rifugio nella casetta di tronchi nel bosco per aumentare le distanze”). Efficace la scelta della prima persona, consente alla protagonista di abbandonarsi a continui flussi di coscienza che lasciano poco spazio agli eventi che nel corso della narrazione sono sparuti e tutto sommato trascurabili. La vicenda di Johanna, sebbene per qualche verso estremizzata, è quella di ogni figlio che mai smetterà di essere tale,continuando a fare i conti col bisogno inestinguibile di essere visto, accettato e liberato dal peso delle aspettative di chi lo ha messo al mondo.
Il prezzo del processo di affrancazione dalla figura materna è molto alto.
Johanna è costretta a colmare il tempo trascorso facendo ricorso ai ricordi dell’infanzia, in un tentativo doloroso e caparbio di rivitalizzare le sembianze smorte della propria madre. Lo fa col solo strumento che possiede, le parole (“Mamma ti invento a parole”).
La stessa cosa fa sua madre con lei? Come può resistere senza sua figlia?
Eppure è così che succede, ogni messaggio e lettera che Johanna le inviaresta senza risposta, accentuando il senso di abbandono, stimolando ancora una volta i ricordi, in un confronto tra passato e presente continuo che ha la funzione di offrirle chiavi di lettura razionali per riuscire a sopportare quel silenzio (“Mia madre desidera soltanto evitare di rapportarsi con me. Ha sicuramente imparato dei metodi per evitare che riaffiorino ricordi che hanno a che fare con me. È comprensibile vista la situazione”).
Johanna per qualche verso viene descritta come una donna in preda a un delirio amoroso.
Osserva uno spicchio di cielo dalla finestra e immagina che sia lo stesso che sta guardando sua madre che ormai abita a poca distanza, ne inventa i dialoghi dal parrucchiere, le abitudini quotidiane, la torta che mangerà, come se immaginato e vissuto possano coincidere. Viceversa, si convince che sua sorella Ruth, angelo custode sempre pronto a riparare la madre dagli assalti della figlia rediviva, essendole stata accanto sempre, abbia partecipato ai suoi cambiamenti, al suo invecchiare che, come spesso accade, ne avrà emendato gli aspetti più aspri del carattere (“Forse Ruth ha visto nostra madre trasformarsi in una persona più calda e saggia, dev’essere stato un bene per entrambe”).
Ma cosa si nasconde dietro l’ossessione di Johanna per la propria madre, dietro quella che su un piano psicanalitico sembrerebbe a tutti gli effetti una regressione?
Quello che Hjort descrive è un vero e proprio pedinamento, un inseguimento per certi versi straniante che conduce Johanna non solo a inventare una madre che non vede da trent’anni, ma addirittura a rovistare nella sua spazzatura in un tentativo grottesco ed estremo di recuperare da quegli scarti nient’altro che se stessa(“Credendo di disegnare la mamma, avevo disegnato me stessa, credendo di aver scandagliato mia madre, avevo scandagliato me stessa, con le mie matite non mi ero avvicinata alla mamma o al suo mondo, ma soltanto al mio?”).
La memoria per Johanna ha una funzione complessa, riempie il vuoto e fornisce risposte.
Rievocare continuamente episodi dell’infanzia è funzionale anche a recuperare l’immagine reale di sua madre, quella di una donna infelice, costretta dal marito severo e dalle convenzioni sociali a non esprimersi e a non ribellarsi.
Johanna rivede sua madre come in un filmino ingiallito, le camicie rigorosamente a maniche lunghe che indossava, sente risuonare le dozzinali frasi fatte che ripeteva spesso e, per la prima volta, comprende che ognuno di quei particolari celava un dolore solitario.
Perché se è vero che ogni madre è prima di tutto una donna,mostrarsi ai propri figli impermeabile alla tristezza, alla solitudine e alla frustrazione, è inutile.
L’infelicità taciuta da una madre passa nel sangue dei propri figli come un’eredità inesorabile, sembra dirci Hjort. In questo senso, anche l’epilogo del romanzo, inevitabilmente disperato e catartico, quel corpo a corpo tra madre e figlia, al contempo concreto e metaforico, è il corpo a corpo tra due donne spogliate dei propri ruoli, che si mostrano l’una all’altra finalmente fragili, affamate di amore e di conferme (“Perché la madre è uno specchio in cui la figlia vede se stessa come sarà nei tempi a venire, mentre la figlia è uno specchio in cui la madre vede il proprio io perduto”).