La maternità tra ambivalenze e tentativi di ricomposizione
Il lavoro di una vita. Sul diventare madri della canadese/britannica Rachel Cusk, pubblicato per la prima volta nel 2001 e arricchito nel 2008 di una prefazione dell’autrice in cui spiega le ragioni che l’hanno indotta a scrivere senza pudori delle sua prima esperienza di maternità, è stato riproposto recentemente da Einaudi nella Collana Tascabili.
Non un saggio sulla maternità, e neppure un romanzo, ma una testimonianza scomoda e disturbante dell’ambivalenza emotiva che diventare madre comporta, e che i sistemi sociali tendono a oscurare proponendo modelli artificiosi e patinati di maternità esemplari (“Sono sempre più convinta che la gravidanza sia una menzogna, un luogo popolato da evangelici, moralisti e maniaci del controllo, un luogo infestato da pazze col loro delirio materno”).
Articolato in dodici capitoli che ripercorrono le tappe salienti dell’esperienza della maternità, dalla gravidanza al parto, dall’allattamento alla gestione delle coliche, dalla consolazione del pianto alla scelta della babysitter, il libro non si propone di sconsacrare modelli o fornire risposte pedagogiche, ma di porre delle domande: chi siamo? Cosa significa essere una madre? L’autrice adotta un punto di vista anch’esso non convenzionale.
Con una lingua precisa e inesorabile, Cusk pone al centro dell’attenzione se stessa, il proprio corpo confiscato e asservito, la propria solitudine asfissiante, i sensi di colpa per non essere ortodossa come le madri dei manuali di puericultura, i rimpianti per la vita di prima di cui si chiede ossessivamente cosa resti.
Sono domande ragionevoli, per qualche verso inevitabili, poiché attengono all’identità femminile, all’eterno conflitto tra ciò che siamo e ciò che sentiamo di essere, ed è per questo che sono anche dolorose, suscitano sensi di colpa e muovono ripensamenti ( “Mi sembra di essere stata colta in un atto di spaventosa infedeltà. I miei pensieri di libertà si ritirano in ordine sparso e trabocco di collera e vergogna”).
Nel 2001 un libro così non è stato accolto facilmente.
Al momento della pubblicazione, Il lavoro di una vita incontrò critiche feroci da parte della stampa ma soprattutto da parte delle donne. Fu percepito come offensivo, la sua autrice come una madre anaffettiva e inadeguata sebbene, di fatto, si limiti a proporre una lettura personale dell’esperienza della maternità, senza ambizioni di proselitismo, ma certamente consapevole che molte altre donne possano riconoscersi nel suo racconto (“Dopotutto il pronome che regge il libro è Io, non Voi”).
La maternità, da vicenda intima col suo portato di contraddizioni, diventa esperienza corale, condivisibile se solo non ci si lascia condizionare dalla disonesta rappresentazione istituzionale che se ne fa.
I sentimenti di una madre sono sempre univoci? Esistono sentimenti illegittimi?
Anche il riferimento che Cusk fa a personaggi letterari quali Madame Bovary, ha la funzione archetipica di descrivere la donna-madre con le sue contraddizioni e i suoi abissi, la sua propensione all’amore quanto all’odio nei confronti della creatura che ha messo al mondo. A tale proposito, l’autrice cita Donald Winnicott, controverso pediatra e psicanalista degli anni quaranta, il quale dichiarò che, specie quando il bambino è molto piccolo e dunque incapace di percepire il rancore di chi lo ha messo al mondo, nella madre coesistono sentimenti di odio e di amore (“Non intendeva dire che non l’ama, solo che l’amore e l’odio coesistono. La madre «buona» è in parte la proiezione di tale astio: sterilizza la propria ambivalenza, le pulsioni violente e lo spaesamento, e sigilla l’impulso all’abbandono in minuscoli vasetti sotto vuoto”). Eppure, nonostante Cusk si proponga di essere onesta fino quasi alla brutalità a beneficio delle donne che non si sentono autorizzate dalla società e da se stesse a esprimersi liberamente, nonostante aspiri a renderle “capaci di vivere un libro come un’eco, una consolazione,uno specchio“, non mancano le contraddizioni.
Le pagine, infatti, grondano del senso di solitudine invincibile che l’autrice avverte proprio nei confronti delle altre madri che definisce omertose, prive di dubbi o increspature di rancore, collera o rimpianti nei lineamenti (“quando parlano della maternità le donne esercitino una censura sul parto, …una sorta di freddezza politica quando le amiche senza figli sollevano l’argomento”).
C’è solitudine, rabbia, ma anche giudizio nei confronti di se stessa.
Quello del giudizio è un tema centrale nel memoir di Cusk e ha le sembianze di un martellante atto di accusa a cui non sa sottrarsi neppure quando, trovandosi al cospetto della neonata che piange senza sosta, cede sfinita al rimprovero e sente il bisogno di confessarlo a chiunque, in cerca di assoluzioni che non riceverà (“Ho urlato alla bambina, confesso. Finisco per confessarlo a varie persone, e nessuno mi dà l’assoluzione che vorrei. Oddio, dicono”.)
Al rifiuto di assoluzione sociale nei confronti delle madri inadeguate al ruolo, fa da contrappunto l’evidenza che nessuna donna è preparata a essere madre, né esistono manuali o esperienze altrui che possano allenare a tale transizione. Diventare madre significa diventare un’altra, ed è un processo laborioso e non necessariamente fluido o naturale.
Il senso di isolamento dal resto della società acuisce la percezione dell’autrice di essere confinata in un recinto, oltre il quale si agitano sinistri i ricordi e i rimpianti della vita di prima.
Appare inestinguibile, sottolinea Cusk, il complesso corredo di esperienze, vissuti, passioni e sogni a cui la maternità impone di abdicare, casomai temporaneamente, pena la sensazione di fallimento e l’acuirsi della frattura “tra la madre e il sé” (“Per essere una madre devo ignorare le telefonate, lasciare il lavoro a metà, venir meno agli impegni presi. Per essere me stessa devo lasciar piangere mia figlia, anticipare le sue poppate, abbandonarla per uscire la sera, dimenticarla per pensare ad altro”).
L’ amore di una madre è una teca, un guscio o lo strumento di possesso di un altro corpo?
È un altro interrogativo che l’autrice pone e, a tale proposito, molto interessante è il riferimento a “La Casa della gioia” di Edith Wharton che esalta il concetto di possesso.
Ma che cos’è questo irrefrenabile desiderio di possesso del proprio bambino, se non l’esigenza disperata di colmare un vuoto più antico? L’ amore genitoriale è per Cusk strumento di verifica crudele e di riproposizione inevitabile dell’amore che ha ricevuto dai propri genitori (“Le notti insonni si allineano nei miei ricordi come un viale misterioso dove ci sono solo io: notti in cui avevo paura ma non osavo disturbare i miei genitori, e, più tardi, quand’ero infelice e non osavo disturbare la causa della mia infelicità”). È un processo di transizione e ricomposizione personale quello che descrive, ma anche di restituzione di quanto le è stato negato in un passato ormai lontano.
Inevitabile, leggendo queste pagine al contempo spietate e umanissime, domandarsi come vada a finire, se esista una speranza di farcela a tenere assieme i tasselli sparsi e precari di una individualità.
Solo il trascorrere del tempo, che porta con sé l’acquisizione progressiva da parte della piccola di una propria identità specifica, concede alla madre alcune pause dall’esperienza fusionale e sfinente dei primi mesi. Ed è in queste pause che ritrova se stessa, o forse, è il caso di dire, riconosce quella parte di sé che si era nascosta (“Brevi pause cominciano a delinearsi nello spartito della maternità, silenzi simili a quelli fra tra un brano e l’altro in un album, attimi circondati dalla musica, ma pur sempre silenzi. In essi comincio a intravedere me stessa, per un istante, come una che passa davanti alla finestra. È un’immagine scioccante, come vedere una persona che si credeva morta”).