Sono fame, di Natalia Guerrieri: se il lavoro è disumano

Sono fame di Natalia Guerrieri è stato pubblicato a maggio 2022 da Pidgin Edizioni nella collana Ruggine.

Composto da trentanove capitoli brevi che contribuiscono al ritmo narrativo incalzante, è un romanzo affilato, un manifesto generazionale che non indulge a idealizzazioni narrative. Con una lingua precisa, per qualche verso sensoriale, Guerrieri racconta la spietatezza del mondo del lavoro, le sue imposizioni performative, la lotta per la sopravvivenza di chi, non avendo altra scelta che sacrificarsi pur di accedervi, ne resta schiacciato.

Come Chiara, giovane laureata in filosofia che dopo aver assistito al naufragio delle proprie ambizioni editoriali e accademiche, si trasferisce in una non meglio precisata capitale. Spera in questo modo di poter disporre di migliori occasioni professionali e di sfuggire a un’infanzia ferita da un padre scomparso senza spiegazioni, a una sorella disabile che divora ogni attenzione e a una provincia stantia.

Nella metropoli Chiara viene assunta come “rondine” di Envoyé, cioè rider per una compagnia di food delivery.

Coloro che stanno alla base della piramide della compagnia vengono identificati con nomi di animali graziosi e teneri (rondini, volpi, quokka), perché si illudano di essere accolti, addirittura protetti, da quello che molto presto si rivelerà un contesto di abusi e sfruttamento. Il messaggio che Envoyé si impegna a far passare è che lavorare come rider rappresenti un privilegio (“Sei fortunata Irene, sei molto fortunata, lo sai? Perché questo è un lavoro speciale. Essere rondine è speciale”).

Chiara, tuttavia, capisce quasi subito che quel lavoro la distruggerà, che ha già iniziato a consumarle la psiche e il corpo privandola di alternative e, un po’ alla volta, della sua stessa identità.

Il paradosso di tale processo di disumanizzazione si realizza nell’illusione iniziale di poter dettare i propri ritmi e obiettivi professionali, di poter staccare semplicemente mettendosi offline, di scegliere quanto guadagnare in base al carico di lavoro che ci si sente in grado di sostenere (“Nessuno vi dirà mai cosa dovete fare, nessuno vi dirà mai quanto dovete lavorare, nessuno vi obbligherà mai a fare niente, con Envoyé. Niente uffici e scrivanie, niente orari o cartellini da timbrare”).

Una libertà assolutamente effimera, visto che la protagonista si ritrova coinvolta in una corsa forsennata per non perdere punteggio, per accumularlo il più possibile, come in un macabro videogioco che la rende carnefice di se stessa.

Chiara pedala senza sosta da un quartiere all’altro della città, sotto la supervisione di un’app che la incita con messaggi continui ad accettare nuovi ordini, ad andare più veloce, a non perdere tempo, a non perdere punti.

Sottrarsi a quei messaggi e al ricatto che a essi è sotteso diventa un’impresa impossibile (“non ci credo che sei davvero tornata a casa ma non ti vergogni?”).

A un certo punto della narrazione i messaggi che Chiara riceve sul suo smartphone cambiano. Non contengono più solo le nuove ordinazioni e degli indirizzi di consegna ma assumono contenuti manipolatori.

Come in un angosciante Truman Show, sembra che un occhio la segua ovunque, dissuadendola da tutto ciò che può ridurre il suo rendimento come rondine, compresi i progetti di scrittura per una rivista di filosofia (“Lì non concluderai niente”).

Il tutor virtuale si impone nella mente della protagonista con le sembianze interiorizzate di uno spietato superio e, al contempo, incarna la voce della società contemporanea, la sua vocazione a mortificare il talento e a svilire le ambizioni dei giovani che si affacciano al mondo del lavoro.

Chiara viene fagocitata dal suo nuovo impiego e in sella a una bici scalcagnata arriva a desiderare di avere le ossa cave come una rondine vera, così da diventare più veloce.

La capitale è anch’essa, per qualche verso, protagonista del romanzo che, non a caso, si apre con una descrizione lugubre. La metropoli come un corpo vorace, pronto a scarnificare e risucchiare altri corpi, alla ricerca continua di carne fresca che le venga offerta in sacrificio (“La formazione della capitale continua tra terremoti, inondazioni e stratificazioni progressive che annegano, schiacciano, annientano e colmano ogni spazio con altri pezzi. C’è sempre bisogno di carne nuova”). Chiara costeggia palazzi dalle facciate scrostate, compie slalom tra spazzatura e altri corpi che non sono mai gentili, che la offendono e qualche volta la maledicono. Il lettore ha la sensazione di essere avvolto a ogni pagina dall’afa putrida della metropoli, di essere investito dalle esalazioni di sudore, pelle e capelli dell’umanità che la abita.

Al corpo e alle sue componenti anatomiche Guerrieri conferisce una evidente centralità.

Le descrizioni della carne, del sangue, dei denti, del dolore fisico, del volto sfregiato della protagonista e non solo, sembrano il tentativo di raccontare una società che abusa e consuma, non solo in senso figurato, le proprie vittime.

L’autrice ha dichiarato di aver messo al centro della narrazione il corpo, e in particolare un corpo di ragazza, perché nel senso comune quei corpi che percorrono chilometri sotto ogni genere di intemperia per effettuare consegne a domicilio, sembrano non esistere, privati di consistenza fisica oltre che di diritti.

Ogni volta che Chiara compie un ordine per Envoyé la narrazione passa dalla prima alla terza persona e il lettore viene introdotto assieme alla protagonista in case buie, spesso più simili a topaie, abitate da sinistri personaggi colti in una quotidianità quasi mai pacifica, talvolta apertamente ostile, da animali domestici irrequieti e stoviglie contundenti (“Conta fino a quaranta e poi entra. L’androne spoglio sa di muffa, sale su un ascensore che è sul punto di sfasciarsi. Quando arriva al terzo piano, davanti a una porta socchiusa l’attende una giovane donna coi capelli cortissimi e rosa, che la guarda con aria di rimprovero”)

La puntualità delle descrizioni, sempre cupe e di un realismo scabro, comunica inquietudine e sembra preludere, ogni volta, a nuove minacce.

La precarietà lavorativa di Chiara, l’irrisolutezza in cui brancola e che sembra offrirle vie d’uscita solo illusorie, sparge inevitabili riflessi sulle sue relazioni con gli uomini e sulle condizioni abitative in cui è costretta a vivere per mantenersi nella capitale. Particolarmente incisive le pagine dedicate alla casa che condivide con coetanei alle prese, come lei, con difficoltà economiche e di ricerca del lavoro. Lo sgabuzzino che le viene destinato attinge un filo di luce solo dal cavedio condominiale, è ingombro e squallido e ogni volta che vi entra, Chiara è costretta a scavalcare fisicamente l’abulica ex inquilina che non si decide ad andarsene e passa le sue giornate infilata in un sacco piumone sul pavimento. Opprime la penombra domestica in cui la protagonista vive, la sua porzione di frigo perennemente vuota, il pesce rosso che agonizza nella boccia di acqua putrida, la pianta carnivora che divora mosche e zanzare piazzata sul frigorifero.

Ogni elemento della narrazione di Guerrieri pare alludere, in una sorta di richiamo costante e metaforico, al tema principale del romanzo che resta la lotta che la generazione in cerca del primo impiego è costretta a ingaggiare.

Un corpo a corpo con la società contemporanea e i suoi spietati dettami di produttività e che, nelle pagine di questo romanzo, appare priva di qualunque possibilità di riscatto.