Fare un libro è (sempre) meglio che lavorare? Forse non più

I libri fanno parte del nostro tempo privato, quello che dedichiamo ai noi stessi, a ciò che ci piace fare. Un libro può considerarsi un oggetto poetico oltre che culturale, e ci sono molte persone che coltivano il sogno di lavorare con i libri, per i libri, un sogno legato all’ idea romantica che questi oggetti fanno parte della bellezza, della creatività, delle passioni nobili. E, diciamo pure, della nostra libertà.

Ma libertà da cosa? È chiaro: da quell’altro tempo della nostra vita, quello fatto di doveri, in primis il lavoro, che è un’esperienza fortemente ingombrante e invasiva della nostra vita, 8 ore al giorno 5 giorni su 7, a cui si aggiungono i tempi degli eventuali spostamenti casa ufficio, e altre ore ancora, della sera o del week end, nel caso si fosse lavoratori free lance.

Ora, questo dualismo, antagonismo, del tempo libero e del tempo del lavoro, si sta sciogliendo, le persone non vogliono più tenere così nettamente separati il piacere e il dovere (principio di piacere e principio di realtà, diceva Freud), e non sono più disposte a sacrificare il proprio benessere fisico e psicologico per lo stipendio (nella maggior parte dei casi basso) e per la sicurezza economica.

E così è nato il fenomeno delle “Grandi dimissioni”, sulla spinta della pandemia scoppiata alla fine del 2019 e dell’esperimento più grande mai fatto al mondo di lavoro da casa.

Questi fattori hanno giocato da detonatori del senso di disagio che esisteva da tanto tempo tra i lavoratori. Il fenomeno è iniziato in America ed è stato battezzato Great Resignation nel maggio 2021 da Anthony Klotz, professore alla Mays Business School del Texas.

Secondo un’indagine di Microsoft del 2021, il 40% delle persone in America sta pensando di dimettersi dal lavoro attuale entro l’anno, e che quelli che ci riusciranno saranno i più talentuosi. Perché questo desiderio di cambiamento si è fatto all’improvviso dirompente? Urgente? In generale, gli studiosi affermano che il tempo passato a casa per i lookdown ha tenuto le persone distanti dai loro uffici, e le ha in qualche modo riavvicinate alle loro priorità. Ma insieme c’è stato un altro fenomeno scatenante: per molti lavorare da casa ha creato grandi stress e sindrome da burnout (esaurimento con stato anche depressivo dovuto a un eccesso di carico lavorativo) perché il tempo passato davanti al pc è aumentato, è nato lo stress da call, le richieste di produttività e il controllo da parte delle aziende sono cresciuti, ma alla fine qualcosa è sfuggito di mano, anche alle aziende.

Risultato? Nel 2021 quattro americani su dieci hanno cambiato lavoro o si sono messi in proprio, lasciando la carriera.

Nel nostro paese i numeri delle grandi dimissioni sono cominciati a salire più tardi raggiungendo, nel primo trimestre del 2022, in base ai numeri del Ministero del Lavoro, 2 milioni 248 mila di cessazioni di contratti, con un incremento pari al 40,6% nei confronti dello stesso trimestre del 2021.

Secondo una indagine Doxa del 2020, il 40% dei lavoratori italiani non è del tutto soddisfatto della propria situazione professionale e questa condizione impatta sul loro benessere psicologico. Per tre lavoratori italiani su quattro, le sensazioni maggiormente sperimentate nella quotidianità sono quelle legate ad ansia e stress, e il lockdown ha contribuito ad aumentare le sensazioni di ansia e disagio (+15%), nonché il diffondersi di patologie come l’insonnia (+9%).

I segnali del disagio sembrano chiari, le persone ora mettono davanti a tutto il loro benessere, e il lavoro non è più accettato come mera esperienza produttiva forzata, ma vuole essere vissuto come ambito di soddisfazione e realizzazione.

Un elemento importante di questo cambiamento è che sono soprattutto i giovani a fare scelte coraggiose, mettendo al primo posto non lo stipendio ma, diciamolo pure, la felicità.

In particolare si tratta soprattutto della generazione Z (quella nata tra il 97 e il 2010, con uno smartphone in mano), come racconta un articolo di Ninja Marketing:

su TikTok i giovani postano video allegri e festosi dopo aver lasciato il lavoro. E la cosa velocemente è diventata un trend”

Ma al di là dei social, c’è una filosofia alla base di queste scelte: la yolo-approach: You Only Live Once, ovvero “si vive una volta sola”. E le storie di ragazzi che lasciano il lavoro rinunciando anche a delle certezze economiche, disponibili anche a vivere con meno, sono tante.

Insomma ci si riprende la libertà, si difende il diritto a stare bene, a realizzare i propri sogni.

Come dicevamo, tra i sogni di tanti, c’è quello di lavorare con i libri. Che lavoro fai? Faccio libri. Suona bene in effetti, ma ora anche qui le cose stanno cambiando.

Tutto è iniziato con il caso di Grafica Veneta di Trebaseleghe, in provincia di Padova, azienda dove vengono stampati tutti i libri delle maggiori case editrici italiane e straniere. Qui i carabinieri hanno scoperto che i lavoratori erano costretti a lavorare 12 ore al giorno senza pause e senza alcuna tutela. Poi c’è stato della Città del Libro di Stradella, il più grande magazzino dell’editoria italiana, in provincia di Pavia, dove i lavoratori hanno organizzato un grande sciopero per protestare contro le condizioni di lavoro imposte, bloccando la distribuzione di libri in tutta Italia. Ma il malessere non è solo nel settore della distribuzione e logistica. È anche nel cuore più romantico del libro, in quella professioni che si occupano di sceglierli i libri (editor), correggerli (editor e correttori), disegnare le copertine (art director, grafici), promuoverli (uffici stampa e marketing, ufficio diritti). Molte case editrici esternalizzano i vari servizi, e i free lance dichiarano di essere sottopagati.

Secondo l’indagine sull’editoria libraria condotta da Acta, l’Associazione italiana dei freelance, il 93% dei rispondenti impiegati nel settore lavora come freelance per più di un committente e oltre il 70% a fronte di una media di 40 ore settimanali, percepisce un reddito annuo lordo inferiore a 15mila euro.

Tornando nel mercato statunitense, di recente, la rivista americana Bookriot ha raccontato che  4 famosi editor che lavoravano in una delle Big 5 dell’editoria americana si sono dimessi, hanno lasciato il loro editore, e lo hanno comunicato pubblicamente con un tweet. Le ragioni? Il loro lavoro, i risultati raggiunti, non venivano riconosciuti in termini di crescita professionale ed economica.

Ecco, i lavoratori, anche quelli che fanno un lavoro da sogno protestano, e se ne vanno. E lo dichiarano senza remore, quasi un vanto.

Di chi è la colpa? E quale può essere una soluzione?

A leggere i numerosi articoli dedicati all’argomento, il capro espiatorio è il padrone sfruttatore e ancor prima il capitalismo competitivo, che spinge a massimizzare i profitti a discapito di tutto il resto)

Certamente ora sta alle aziende trovare una risposta, e in questo senso, a leggere comunicati stampa e post social, sono in corso grandi rivoluzioni nelle aree Gestione Risorse Umane, Corporate Culture, Comunicazione interna (chissà se rimarranno mere operazioni di comunicazione).

Per il settore editoria il discorso ha anche delle specificità. Gli editori non sono aziende che hanno grandi profitti, lottano per andare in pari (escludiamo dal discorso anche qui i grandi gruppi). Ma certamente lo sfruttamento non è una soluzione.

Come evidenzia un articolo pubblicato su The Vision:

“Il precariato che affligge queste mansioni si alimenta anche grazie a un circolo vizioso, dato che moltissime persone desiderano lavorare nell’editoria e sono disposte ad accettare regimi di sfruttamento pur di realizzare il sogno di contribuire alla creazione di un libro. In generale, come denunciava anche la copywriter e attivista di Redacta Silvia Gola su Il Tascabile, la romanticizzazione del lavoro editoriale fa sì che la cura del libro sia considerata più una passione che un lavoro vero e proprio, dando consistenza all’idea che per ripagare un buon editing o una buona correzione di bozze bastino gratificazione e prestigio sociale”.

Non avremmo potuto scriverlo meglio. C’è un fattore culturale, un falso mito, un sogno tradito dall’impatto con la realtà, che poi viene sfruttato dal mercato.

Quindi? Smettere di sognare? Proprio no, ma iniziare a chiedere, sicuramente sì.

 

Articolo pubblicato su helpconsumatori.com a firma di Valeria Cecilia