
Sabo si è fermato: a cosa serve raccontare il dolore

Sabo si è fermato, del poeta, narratore e traduttore serbo Oto Horvat, è stato pubblicato nel 2020 da Stilo Editrice nella collana Limina. La traduzione è di Ljiljana Banjanin che ne ha curato anche la nota introduttiva. Si tratta di un romanzo autobiografico, strutturato nella forma della raccolta di memorie frammentarie e non scandite cronologicamente, che ripercorrono, attraverso la forma agile dei capitoli brevi, la vita di Sabo, alter ego narrativo dell’autore, e di sua moglie A., prematuramente scomparsa a causa di una lancinante malattia.
E’ proprio la morte di A. l’origine del dolore sconfinato di Sabo.
Non sono solo le minuziose descrizioni della vita con lei, dei rimpianti per non averle detto o non aver fatto abbastanza, a restituire vivida al lettore la disperazione del protagonista, ma c’è anche un punto di vista particolare: leggendo questa opera, la sensazione è che Sabo, con programmatico intento, voglia custodire il più a lungo possibile la propria sofferenza, che non desideri mai distrarsi da quel dolore. Infatti intorno a lui, dopo la morte di sua moglie, tutto ha perso consistenza, per lui solo il dolore rimane tangibile e vero (“soltanto il dolore è reale, come una lama”… “anche le stelle sono finte stelle, la loro luce sussulta come tante candele su una tomba”) ed è per questo che va preservato.
Si tratta di un esercizio per qualche verso innaturale, poiché lo scorrere del tempo tende a scolorare i vissuti e ogni essere umano ha la propensione a cercare strategie per lenire le proprie sofferenze. Sabo, al contrario, compie l’estrema fatica di ricostruire l’intera biografia di sua moglie anche perché crede sia il solo modo per trattenerla ancora un po’ in questa vita.
Lo fa in modo struggente e in qualche modo espiatorio, elencando ciò che della vita di A. conosce e che la rende sua per sempre. Ogni frase è introdotta dal verbo “so” e ripercorre le esperienze di A., le sue amicizie, i suoi gusti artistici, il declino della malattia, le disperate speranze riposte in una nuova cura, l’invidia umanissima che in punto di morte ha provato per lui (“So che mi aveva detto: Beato te, continuerai a vivere. So che mi era sembrato di impazzire”).
Il dolore assume una funzione complessa, da un lato è un’esperienza frustrante capace di confinare il tempo in un passato perenne che diviene quasi il luogo di culto in cui ripararsi (“E’ svanita la possibilità di usare il tempo grammaticale presente e futuro. In questo modo anche il passato è diventato definitivo e onnipresente. E soprattutto immutabile”), dall’atro è uno strumento necessario per salvarsi dalla perdita di senso di ogni cosa.
I ricordi hanno, anche essi, una funzione ambivalente: sono al contempo identità e prigione.
La costante alternanza tra memorie dell’infanzia e quelle più recenti, l’intreccio geografico di destinazioni (Novi Sad, Belgrado, Budapest, Erlangen, Firenze e Berlino) non ché di voci narranti (io/tu/egli), hanno la funzione di delineare l’identità di Sabo, di aiutarlo a ricucire i brandelli incerti della sua vita (non è un caso che il significato del cognome Sabo/Szabò in ungherese, una delle lingue da cui Horvat traduce per lavoro, significhi proprio“sarto”). Tuttavia, i ricordi rappresentano anche una prigione da cui il protagonista non sa evadere, come un calabrone che sbatte ripetutamente contro il vetro di una finestra (“L’impressione che mi porto dietro da tempi immemorabili è imbattermi di continuo contro il vetro di una finestra”).
Sebbene il tema della perdita della persona amata sia centrale, Horvat non ha scritto un romanzo d’amore.
Ci tiene a sottolinearlo nell’introduzione anche Banjanin, respingendo “la vena patetica e sentimentale”che finirebbe per accomunare questo romanzo a tanti suoi contemporanei. E’ piuttosto un percorso introspettivo quello che traccia l’autore. Sebbene ricorra a una lingua potentemente lirica, la struttura somiglia a quella di una seduta psicanalitica in cui a parlare, anzi a ricordare, a volte è il paziente Sabo e a volte il suo terapeuta o un implacabile antagonista interiorizzato dallo stesso Sabo (“Inizi signor Sabo!”, “E’ tutto per oggi, signor Sabo?”). Altre volte poi, il narratore usa la terza persona e Sabo e A. vengono tratteggiati dall’esterno diventando i protagonisti di un canovaccio narrativo non particolarmente lineare ma molto toccante.
Quando Sabo racconta in prima persona della propria infanzia e della morte di suo padre, della vita con A. e dell’infanzia di lei, il lettore è portato a immaginare Horvat ul lettino dello psicanalista. E’ come se l’autore affidasse la propria coscienza a Sabo perché trovi le parole al posto suo.
Il tema del senso di colpa e del tradimento per essere sopravvissuto ad A. e al proprio padre rappresentano, in termini psicanalitici, nient’altro che una fase, forse la più complicata,dell’elaborazione del lutto. In questa accezione, quindi, il romanzo si trasforma nel setting di una psicoterapia lunga trentadue capitoli, in cui si alternano di continuo domande, risposte, riflessioni e ricordi.
In una recente intervista a firma di Marija Bradas, è lo stesso OtoHorvat a parlare della scrittura come forma di meditazione e atto di profonda intimità: “la creazione artistica è una discesa a un certo livello di coscienza che, suppongo, ha somiglianze con i livelli di coscienza durante la meditazione. Nella scrittura, nella creazione artistica, vedo un tentativo di portare alla luce ciò che è profondo nei ricordi e nei sentimenti dell’artista”.
L’immagine della valigia ricevuta in prestito dal padre, con cui si apre e si chiude il romanzo testimonia il viaggio interiore di Sabo.
Anche la suora Ulrike, con cui si trova, suo malgrado, a condividere lo scompartimento del treno che da Norimberga lo sta portando a Budapest, lo saluta con una frase dal sentore profetico: “la capisco: lei viaggerà ancora a lungo”.
Un viaggio che è una corda calata nel dolore, nel tentativo di farsi risucchiare completamente.
Sabo si sente colpevole(“Io, il traditore”) e inorridisce al pensiero che la sua tristezza si plachi (“Ed è triste come la tristezza perda di intensità e si trasformi quasi in una tristezza occasionale”).
Qual è la funzione della scrittura?
A ribadire la natura di intimo scandaglio del romanzo, soccorrono le riflessioni diSabo sulla funzione della scrittura. La poesia e la prosa smarriscono il loro senso davanti alla morte, sembra dirci Sabo-Horvat (“le parole non sono quelle giuste, o meglio, le parole giuste non esistono”)e quindi, inaspettatamente, non viene loro attribuita alcuna valenza pacificatoria. Scrivere non serve a superare il dolore, casomai è il contrario. Serve a mantenerlo vivo e al giusto livello di intensità (“Come vorremmo che ci facesse male. Perché solo in questo caso ci sentiremmo meglio?”), a non farci sentire traditori di chi ci ha lasciati per sempre. Le parole, quindi, smuovono i ricordi, ribadiscono le assenze e spargono sale sulle ferite.